martedì 8 settembre 2009

CHI C**** SONO GLI ARCTIC MONKEYS?


Vi ricordate quell’ EP uscito nel 2006, giusto dopo il celebre Whatever people say I am, that’s what I’m not ? Conteneva 5 tracce e l’ultima era proprio quella eponima: Who the fuck are Arctic Monkeys? Già chi diavolo sono queste Scimmie Artiche, ma, domande esistenziali a parte, è curiosa perché è un tipico esempio della..non saprei, cinicità?! presente in alcuni testi del nostro Alex. Qualcuno di non ben definito “ha spinto la sua fede ai limiti, fin quasi a farlo perdere, but they’re stick to the guns, don’t care if it’s marketing suicide…”,pronunciato in modo ben scandito, vorrei aggiungere. Ecco, era questo il pezzo che mi interessava. Chissà se ciò che Alex stesso scrisse ormai tre anni fa si rivelerà una premonizione nefasta o se questo coraggioso terzo album, Humbug uscito da poco, vincerà la sfida! Io devo ammettere che sono estremamente di parte! e spero possa simboleggiare un successo nella carriera delle nostre scimmiette, dopo i già pluripremiati album precedenti verso cui non posso che nutrire un particolare legame affettivo, perché basta sentire qualcosa come He used to get in your fishnets, now you only get in your nightdress che la mia mente ritorna nostalgicamente allo scantinato situato tra Oxford Street e Tottenham Court Road, ma –come dico spesso- that’s another story!
E’ probabile che Humbug abbia ridotto drasticamente la cosiddetta fanbase dei nostri bardi ed è altrettanto probabile che a questi ultimi non gliene importi più di tanto, poiché più volte hanno dimostrato di non essere un gruppo desideroso di avere ragazzine urlanti, deliranti e quant’altro in prima fila ai loro concerti (quindi anche la sottoscritta si dovrà saggiamente limitare ^_^): più piccola e più selezionata.

Gavin Haynes –NME- dice qualcosa tipo che Humbug è simile a un viaggio allucinogeno (non saprei come altro tradurre peyote-trip) e, come ogni altro viaggio allucinogeno, può risultare a tratti rigido (sticky), claustrofobico, come se il tuo cuore fosse sul punto di esplodere.E’ un album (e qui continuo a tradurre quello che dice Mr. Haynes) che estende il trend di Favourite Worst Nightmare riuscendo a essere compatto, tozzo sino al limite della brutalità. Gli Arctic del resto hanno sempre avuto un loro modo intelligente di rivoltare i clichè del rock – le loro canzoni raramente iniziano o finiscono dove in teoria dovrebbero. In Humbug, generalmente, quando le parole finiscono, la canzone finisce. Le strutture sono capovolte, spesso in modo intrigante. C’è bisogno di un po’ di ascolti solo per capire come mai Secret Door appaia così disordinata, instabile, prima di notare che la sequenza è: ritornello, strofa, intermezzo, strofa, intermezzo, ritornello, ritornello.
A causa di tutta la sua onesta furia, ci sono dei momenti in cui non riescono a trovare quella marcia in più, e il rapporto tra la texture della canzone e il cantato si sbilancia nella loro impazienza di cambiare direzione, verso il futuro. Potrebbe essere considerato un ‘band album’, tuttavia è la cifra stizzosa di Alex Turner che fa da vera protagonista in questo show. Il verso che apre My propeller cade leggero come una piuma: “If you can summon the strength”, poi una pausa –un’elegante, teatrale pausa, “tell me”. Se Miles Davis era tutto preso dagli ‘spaces in between the notes’, Turner si sta adesso specializzando negli spazi tra le parole. Il suo modo di esprimersi è diventato davvero sensibile; the twists and turns of his lips are immacolate (ahahahah!)
Il ritornello intricato di Crying Lightning lascia piuttosto freddi al primo ascolto, ma la ripetizione gli permette infine di fissarsi in testa. Potion approaching, pesantissima, apre la strada alla faticata di Fire and the thud e Dance little liar, un senso di torpore sudato che ci abbandona solo in Cornerstone, prima che il calore del suono trovi il suo apice nella poesia-nonsenso con intento di rimprovero/attacco di Pretty visitors.
E qui ci troviamo di fronte alla ‘wake-up call’ per tutti quelli che nel 2006 avevano affermato che Alex Turner fosse una sorta di poeta della gente. E’ un poeta, ok, ma anziché immergere se stesso nella sua arte –come sta facendo il Morrissey dell’ultimo periodo- sembra abbia speso gli anni trascorsi cercando di fuggire la sua persona. [Pezzo intraducibile, ho troppo sonno per concentrarmi!].
Humbug conferma il suo genio, ma in un modo più astratto piuttosto che dinamico, in movimento. Dicendola con le solite sentenze critiche, è cresciuto o comunque sta crescendo. Uno per i fans. Coraggioso. Amante delle sfide. E vari altri clichés che suggeriscono che gli Arctic hanno raggiunto il punto in cui le persone che li amano molto se li terranno ancora più stretti al cuore e invece le persone a cui piacevano solo così si chiederanno ‘who the fuck they are in five years’ time’.
Se My propeller è l’overture di apertura, come un presagio, Jeweller’s hand è la sua compagna che chiude il racconto. Il viaggio è finito. Ma quella vena di follia, anziché lasciarci, sembra volerci invitare a seguire il motivetto del pifferaio lungo le colline di una Mad Land. “A procession of pioneers…all drowned” proferisce Turner. Certo che sono affogati, cinici bastardi! Nessuno esce vivo from the Arctic’s world. Sono fatalistici, scettici leziosi che non assumeranno mai e poi mai l’opinione più leggera. Sono esattamente il tipo di rock’n’roll band in cui non dovresti mettere la tua vita tra le mani. Ed è esattamente il motivo per cui dovresti amarli anche di più!

I miei ringraziamenti a Gavin Haynes e alla sua recensione che appoggio in pieno a parte quando dice che Alex è un poeta, concetto su cui, grazie a Dio, ho delle idee piuttosto intransigenti, ma va bhè…négligons!

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