martedì 31 agosto 2010

SQUEREZXX


Registrare una sensazione.
Amy faceva di queste cose. Più che altro nella convinzione che poi sarebbe stato più facile dirle: Fanculo stronza, vai a infastidire qualcun altro. Era bellissima nelle sue convinzioni e nella sua gonnellina rossa a pieghe.
Registrava ogni cosa, tu la vedevi in giro per quelle vie scavate nella pietra con il suo aggeggio in mano ed era sorprendente, aveva trovato un modo per mantenersi in uno stato quasi pacifico con l'esistenza, per lo meno per non farci a pugni ogni giorno. La sua gonnellina rossa e il cappello: era come un oggetto d'arredamento del paesaggio, era il suo posto e, un giorno, pensava Qualcosa ci farò con le mie registrazioni, qualcosa di sicuro, cose dentro cose, qualcosa...
Registrava anche le scoperte Amy. Specialmente quelle che in realtà non avevano niente di nuovo e sorprendente, ma che per il loro giungere così inaspettate e illuminanti non poteva fare a meno che catalogare sotto la sezione 'Scoperte'. C'erano delle cassette per ogni sezione e per ogni sezione una scatola colorata.
Un giorno per esempio, che capitava essere il quindici settembre di un anno imprecisato, verso sera, lei era in cucina a cercare di capire perchè la parte sinistra della sua pianta di basilico si fosse raggrinzita a quel modo, non c'era modo di farla riprendere, e a un certo punto prese in mano il suo registratore e disse:
Registrazione di una scoperta che in realtà non ha nulla di nuovo e sorprendente:
L'unico modo per fare a modo con le emozioni e l'impatto con cui ti colpiscono è guardarle con distacco. Riuscirci dopo un pò.
Poi lasciò perdere il basilico, si sedette sul divano e ripensò che in realtà quella era stata una settimana folle e per giunta qualcuno le aveva appena detto una cosa. Era stanca. Forse anche il basilico e la sua parte sinistra lo erano.
Vic
(anche la foto)

lunedì 30 agosto 2010

YOU DON'T HAVE TO WEAR THAT DRESS TONIGHT



I treni sono dei pessimi luoghi su cui rimuginare, in generale.
Primo, perchè sono luoghi pubblici per così dire e, per esempio, metti che uno voglia mettersi a piangere, un'azione come tante, si troverà tutt'un tratto imbarazzato, con tanti piccoli occhi scrutatori, per lo più orientali, puntati addosso: questo è certo sconveniente.
Secondo, perchè il treno è in movimento e tu sei ferma e il cervello si muove più velocemente del treno, tutto un gioco contrapposto di incastri, capite, scatole dentro scatole.
L'immobilità del corpo costringe le sinapsi a inevitabili acrobazie rimuginanti e la mobilità del treno, coadiuvata dalle appena citate sinapsi acrobate da circo, non so perchè, stringe sui condotti lacrimali. Saranno tutte quelle distese di verde verdi che scorrono troppo veloci e senza sorprese oltre i finestrini incrostati a cui è appeso l'adesivo: CARROZZA CLIMATIZZATA, APRIRE SOLO IN CASO DI NECESSITA'; sarà senz'altro quello.
L'immobilità del corpo funziona da carrozza non climatizzata sul cervello, sempre tanto per fare un esempio. E allora quello cosa fa?! Trasuda immagini, pensieri, e immobilità ripescandole un pò come vengono dall' Esperienza più recente e se durante tutto questo lavorio ti trovi, per appunto, su un treno - regionale 2206 delle 18.25 diretto a Milano C.le, per onestà di informazione - succede che ti ritrovi in una situazione non molto felice perchè da lì non ci scappi e poi non puoi neanche piangere, tra le varie cose. No, rimani, col tuo didietro incollato al sedile blu punzecchioso e pensi.
Pensi - per esempio - a quanto piacevole sia l'aria condizionata e come il mondo risulterebbe splendente di luce propria se non esistesse l'immobilità del corpo.
(Fermi alla STAZIONE DI PARMA da interminabili minuti, si prospetta un viaggio più lungo del solito).
Tante immobilità del corpo e tutte coi loro diversi gradi di danneggiamento che possono provocare.
Santo cielo, a chi non è mai capitato di desiderare tanto una cosa e in seguito dovervi rinunciare a causa di quell'impedimento?! Condizione disgustosamente troppo umana.
Bastava aprir bocca al momento giusto ordinare ai muscoli del corpo tanto bene organizzati nella loro fitta rete di tessuti e filamenti di darsi una mossa muovere il culo bastava alzarsi in piedi e scattare essere un pò meno umani correre a perdifiato gridare qualcosa qualsiasi cosa sentirsi Thelma e Louise quando con immensa necessità decidono di precipitare nel Gran Canyon con la macchina e tutto il resto la foto che svolazza via perchè capite può darsi che mentre precipitavano si sentissero davvero felici. Bastava.
Potevano bastare un sacco di cose insomma, ma non importa se alla fine la tua umanità ti fa assomigliare a qualcosa come un muro -per esempio - di quelli massicci e robusti che costruivano un tempo, a osservare, e immobile.
Ho pensato che ci si può ricoprire di calce e fingere di essere una montagnetta di mattoni messi sù a casaccio, che differenza volete che ci sia?!
Ho pensato che i paesaggi che si vedono al di là dei finestrini dei treni siano sul serio senza sorprese: i campi di grano, gli alberi in fila tutti uguali che scorrono senza darti il tempo di fissarli, le rinunce in fila tutte uguali senza darti il tempo di chiederti Ne vale poi la pena?
Lasciare andare le cose, farle precipitare in un burrone insieme a Thelma e Louise mentre tu sei fermo (- che stronzata da vigliacchi - ho pensato), finchè arrivi a un punto che neanche ti accorgi più che stia accadendo, voglio dire, il momento dopo sei già lì occupato nelle tue piccole cosette rassicuranti, preoccupato solo di non fare eccessive figure di merda e BASTA, non ti accorgi più. Ho pensato che è soprattutto questo.
Il treno è un posto strano dove stare: in quel mentre quando non sei da nessuna parte, solo diretto da qualche parte, ti costringe a essere un pò più onesto con te stesso.
E' anche questo soprattutto (l'onestà) (che ci manca).
E comunque, STAZIONE DI PIACENZA.
Vic

sabato 14 agosto 2010

Volpone


Il nuovo motto, trend, must, cose-da-portare-in-valigia dell'estate 2010 è scomprendersi.

Proprio così. Certo non verrò a dirvi cosa significa, perchè, certo, non è implicata la comprensione. Ciò che davvero conta è divagare, disquisire squisitamente e senza indugio, con apparente padronanza di linguaggio, su ogni cosa futile e di cui non vi importa poi niente che vi passa per la testa e, ogni tanto, per rendere il gioco degno del suo scopo, inserire qualche frasettina, qualche parolina, dal dubbio, anzi no, dai duplici, triplici, n-plici significanti reconditi che uno poi sta lì ore a pensarci, ad analizzare quasi fosse un dettato oracolare dato da una pizia delfica in trance e infine, niente, la conclusione a cui uno spesso approda è quella di dire "In fondo mi ama". L'uomo è un animale sociale, simbolico, dategli tutte le definizioni che volete, ma soprattutto rincitrullito, illuso fino alla Nausea. E poi, ecco, cala il silenzio, che certamente è la forma più alta e divina di scomprensione che l'uomo possa mai raggiungere sulla terra. Silenzio.

Non ti penso spesso, sappilo. E quando lo faccio, lo faccio come se pensassi a una gabbianella un tempo candida che è rimasta incastrata in un mare di catrame e adesso muove le sue deboli alette nello sforzo onnipotente di cercare di liberarsi e, sempre nei miei pensieri casuali, non so se riuscirà a liberarsi, non lo so davvero.

Oggi c'è il sole. E' estate e c'è il sole, un'arsura tale che ora mi spingerà a uscire per andare a cercare la mia gabbianella e cercare di aiutarla.

Niente di quello che ho detto, che dico, è vero.
m.

SILK


Tutto ciò che Hervé Joncour disse, sul suo viaggio, fu che le uova si erano dischiuse in un paese vicino a Colonia, e che il paese si chiamava Eberfeld.
Quattro mesi e tredici giorni dopo il suo ritorno, Baldabiou si sedette davanti a lui, sulla riva del lago, al limite occidentale del parco, e gli disse
-Tanto a qualcuno la dovrai raccontare prima o poi la verità.
Lo disse piano, con fatica, perchè non credeva, mai, che laverità servisse a qualcosa.
Hervé Joncour alzò lo sguardo verso il parco.
C'era autunno e luce falsa, tutt'intorno.
-La prima volta che vidi Hara Kei indossava una tunica scura, stava seduto a gambe incrociate, immobile, in un angolo della stanza. Sdraiata accanto a lui, col capo appoggiato sul suo grembo, c'era una donna. I suoi occhi non avevano un taglio orientale, e il suo volto era il volto di una ragazzina.
Baldabiou stette ad ascoltare, in silenzio, fino all'ultimo, fino al treno di Eberfeld.
Non pensava nulla.
Ascoltava.
Gli fece male sentire, alla fine, Hervé Joncour dire piano
- Non ho mai sentito nemmeno la sua voce.
E dopo un pò:
- E' uno strano dolore.
Piano.
- Morire di nostalgia per qualcosa che non vivrai mai.
Risalirono il parco camminando uno accanto all'altro. L'unica cosa che Baldabiou disse fu
- Ma perchè diavolo fa questo freddo porco?
Lo disse a un certo punto.

mercoledì 11 agosto 2010

OUCH


Sa il diavolo se Dio esiste. Se non esiste, non devi mica prendergli il suo posto.

Dio, ho perso l'ispirazione quando ho perso te. Ho ritrovato la ragione, quando ho perso il mio cuore e viceversa, ma ora mi ritrovo qui con tutta questa ragione e, sinceramente, non so che farmene. Stupido dualismo, ci perdi tanto tempo a trovare un ingegnoso modo per conciliare questi due divinamente opposti poli che alla fine ti ritrovi quarantenne con i fianchi che ti strabordano dalla sedia per quanto sono lievitati e come unica attività produttiva bere del buon vino rosso a litri per dimenticarti i fianchi e tutto il resto. Non so se devo scappare anche io in Africa per assestare il mio karma e tutte le dicotomie varie, ma, al momento, sembra un' opzione invidiabile. A suonare il bongo, a far sì che un battitto di dito sul tamburo faccia scaturire tutti i suoni e dia inizio a una nuova armonia...
Ho perso te e ho perso l'ispirazione.
Non ho perso te, ho perso solo quell'aliena sensazione che provavo, e quel dolore che mi stringevo addosso come un cappotto caldo in una gelida giornata d'inverno, e non me lo volevo più togliere, era strano, era praticamente diventato sempre inverno, era scuro e io, sul serio, io sembrava avessi perso la ragione. Ora che l'ho ritrovata, non so tanto che farmene, l'ho già detto. Ora che ho ritrovato la Ragione penso che è buffo che neanche sul dolore poi uno può fare affidamento più di tanto...sulla felicità si capisce, Schopenhauer dovrebbero studiarlo tutti, la sua storia del pendolo che oscilla e non potrai mai essere felice stabilmente, mai...però sul dolore io in fin dei conti un pò ci contavo! E invece, infingardo e incostante anche lui, e per alcuni può essere una buona cosa, certamente è una buona cosa, ma adesso devo andare a cercarmi qualche altra certezza, qualche altra base solida: sapete come sia tremendamente difficile in questo mondo di scimmie.
E' proprio così: anche le cose tristi passano, anche le disperazioni più profonde ritornano lentamente a riva, il loro furore pian piano impallidisce, si fa più lieve e con i piedi finalmente a terra non riesci neanche a ricordare quale possa essere stata la causa di un tale accecamento. Nulla, in fondo, ha consistenza.
Ma magari un qualche Dio esiste davvero e ci ha creato proprio così, egoisti e inconsistenti, con lo scopo unico di essere sempre sul punto di rischiare di affogare nel mondo dei sensi e, se le cose stanno in questo modo, va dunque tutto bene.
m.
(nella foto: Joshua Reynolds, The Montgomery sisters)

sabato 7 agosto 2010

BIg time sensuality


Beh, devo essere ottimista.
Va bene, dunque, perché vale la pena di vivere?
Ecco un'ottima domanda.
Beh, esistono al mondo alcune cose, credo, per cui valga la pena di vivere. E cosa?
Ok. Per me... io direi... il buon vecchio Groucho Marx tanto per dirne una, e Joe di Maggio e... il secondo movimento della sinfonia Jupiter... Louis Armstrong, l'incisione Potato Head Blues... i film svedesi naturalmente... L'educazione sentimentale di Flaubert... Marlon Brandon, Frank Sinatra, quelle incredibili... mele e pere dipinte da Cézanne, i granchi da Sam Wo...


Il viso di P.


Manhattan
Woody Allen
(a parte 'il viso di P.')

Suggestioni dell'America Latina


Ho letto da qualche parte che sentire la mancanza di qualcuno non ha a che fare con la quantità di tempo passata dall'ultimo incontro o dall'ultima volta che si è parlato insieme. Invece, si tratta proprio di quel momento, quando stai facendo qualcosa, anche la più stupida e insignificante che possa esserci su questo pianeta malandato e inquinato, e vorresti che lui fosse lì con te!

Gesù, sembra una di quelle frasi fatte che ritrovi nei baci Perugina, no forse la qualità è anche inferiore...però è vero, non è così?!
Ok, è stato un momento di melenso e sdolcinato abbandono.

venerdì 6 agosto 2010

Basterebbe in fondo un Pekisch che ci diriga per farci incontrare

Per terra, la terra è secca, e bruna, e dura. Se l’è bevuta il sole, per ore, cancellando una notte di acqua, e lampi, e boati. Finissero nel nulla, così, anche le paure. Sulla terra, poca polvere quasi immobile. Non c’è vento che se la porti via. La gente, con strana meticolosità, ha cancellato i segni degli zoccoli dei cavalli e i solchi delle ruote delle carrozze.
Tutta la strada come un tavolo da biliardo di terra bruna.
La strada è larga trenta passi. Divide in due il paese. Di qua dalla strada. Di là dalla strada. La strada è lunga mille passi, incominciando a contare dalla prima casa del paese e fermandosi all’angolo dell’ultima. Mille passi normali. Di un uomo normale, se c’è.
All’estremo sinistro della strada – sinistro guardando a mezzanotte – ci sono dodici uomini. Due file di sei uomini. Tengono in mano strani strumenti. Alcuni piccoli, alcuni grandi. Sono tutti immobili. Gli uomini, ovviamente, non gli strumenti. E guardano di fronte a sé. E dunque, forse, dentro di sé.
All’estremo destro della strada – destro guardando a mezzanotte – ci sono altri dodici uomini. Due file di sei uomini. Tengono in mano strani strumenti. Alcuni piccoli, alcuni grandi. Sono tutti immobili. Gli uomini, ovviamente, non gli strumenti. E guardano di fronte a sé. E dunque, forse, dentro di sé.
Nei mille passi di strada che dividono i dodici uomini di sinistra dai dodici uomini di destra non c’è niente e nessuno. Perché la gente – e qui gente non vuol dire semplicemente qualche passante, ma decine e decine di persone che messe insieme fanno centinaia di persone, diciamo quattrocento persone, forse anche di più, cioè tutto il paese e anche quelli venuti da lontano appositamente per essere lì, adesso……
Nei mille passi di strada che dividono i dodici uomini di sinistra dai dodici uomini di destra non c’è assolutamente niente e nessuno. Perché la gente se ne sta tutta assiepata e schiacciata tra i bordi della strada e le facciate delle case, ciascuno badando, nonostante la calca e la tensione, a non finire con un piede su quello che a tutti gli effetti ora si può definire, dopo tanto meticoloso lavoro, uno splendido tavolo da biliardo di terra bruna. E man mano che ci si avvicina all’ipotetico e in fondo reale punto di esatta metà della strada, là dove i dodici uomini di sinistra si incroceranno al momento giusto – al momento culminante – con i dodici uomini di destra, come le dita di due mani che si cercano e poi si trovano, come ruote di un grande ingranaggio sonoro, come fili di un tappeto orientale, come venti di una burrasca, come i due proiettili di un solo duello…..
E man mano che ci si avvicina alla metà esatta della strada, sempre più fitta si fa la calca, con la gente assiepata e stretta intorno a quel punto nevralgico, il più vicino possibile a quel confine invisibile dove si mescoleranno le due nuvole sonore ( come sarà, immaginarlo è impossibile), con gran affastellamento di occhi, cappellini, vestiti della festa, bambini, sordità di vecchi, scollature, piedi, rimpianti, lucidi stivali, odori, profumi, sospiri, guanti di pizzo, segreti, malattie, parole mai dette, occhialetti, immensi dolori, chignon, puttane, baffi, mogli vergini, menti spente, tasche, idee sporche, orologi d’oro, sorrisi di felicità, medaglie, pantaloni, sottovesti, illusioni – tutto un grande magazzino di umanità, un concentrato di storie, un ingorgo di vite versato in quella strada ( e con particolare violenza nel punto esatto all’esatta metà di quella strada) per fare da sponda alla traiettoria di una singolare avventura sonora – di una pazzia – di uno scherzo dell’immaginazione – di un rito – di un addio.
E tutto questo – tutto – a mollo nel silenzio.
Se si è capaci di immaginarlo, bisogna immaginarlo così.
Un silenzio infinito.
Non per altro: ma è sempre un qualche meraviglioso silenzio che porge alla vita il minuscolo o enorme boato di ciò che poi diventerà inamovibile ricordo. Così.






Lì sta l’orribile e il meraviglioso.
Non sarebbe poi niente se solo non si avesse di fronte l’infinito.
da "Castelli di rabbia"
Alessandro Baricco

Non, je ne regrette rien


Sapeste che sogno poter intervistare Louis Garrel. Poi la mia carriera potrebbe anche finire lì e che importa... (no, non è vero, ma sono cose che si dicono).
Louis Garrel. Esiste un attore contemporaneo più charmant di Louis Garrel?! Per me è fuori questione, essendo che giust'appunto ormai spendo parte delle mie giornate nell'ossessionante e delirante ricerca di foto che lo ritraggano - possibilmente nudo.
E chiaramente è fidanzato con un'italiana, la bella? attrice Valeria Carla Bruni: Italia-Francia è (sempre) un'accoppiata vincente, e non parlo necessariamente in relazione a esperienze personali.
Ormoni a parte, non posso che amare anche i film in cui il suddetto Garrel, figlio d'arte del regista Philippe, classe 1983, è protagonista. Quelli con la puzza sotto il naso/lamentosi incalliti/visceralmente poco inclini a ritrovare l'arte anche laddove l'arte ti sputi in faccia, costoro, non avranno difficoltà nell'iniziare a blaterare che questa meraviglia modellata direttamente dalle mani del Creatore altro non faccia che interpretare sempre e solo la parte del giovane maledetto, del rivoluzionario sessantottino con il pallino wildiano dell'art for art's sake, l'esteta un pò anarchico che non riesce a fare i conti con la realtà, insomma tutti temi che riescono a fare facilmente presa sull'immaginario della nostra cara, carissima generazione decadente ( e lo dico forse in senso non troppo culturale, decadente). 'Il cinema d'autore, che cosa chic!'
Che parlino pure tali bocche indigeste, io consumerei il registratore a furia di guardare e riguardare tanto The dreamers (2003), regia di Bertolucci quanto Les amants règuliers (2004), diretto proprio dal padre Philippe Garrel.
Nel primo, oltre alla presenza di alcuni temi cari a Bertolucci e che ritroviamo anche in altri suoi film quasi come stampe del suo marchio, si tratta soprattutto dell'intelligente gioco, che sembra via via assumere sempre di più i tratti della sfida, di una sfida pericolosa, che i tre giovani protagonisti ingaggiano tra cinema e vita, una corsa sfrenata alla ricerca del proprio Eliso dove l'esistenza somigli a quella delle scene in bianco e nero racchiuse in una pellicola. Solo alla fine, nell'ultima scena, il sonno dei tre sognatori innocenti viene interrotto -salvezza dalla morte- dalle urla che provengono dalla strada , dalla realtà concreta di un '68 in fiamme che nel frattempo stava raggiungendo il culmine della sua protesta.
"In strada! In strada! In strada!", lo scatenarsi della violenza laddove prima tutto era quiete dei sensi e rarefazione, la voce di Edith Piaf che canta "No, non rimpiango nulla".
Il secondo invece è forse da considerarsi l'opera definitiva che la Novelle Vague - movimento cinematografico nato negli anni '50- ha voluto lasciarci in eredità. Tralasciando anche per un attimo il contesto politico -seppur fondamentale- in cui si svolge la vicenda, è come se l'intero film fosse un inno all'arte, tanto quella di preservare e portare avanti l'opera dei grandi maestri del cinema, quanto l'arte quale monumento incorruttibile -alla Lucrezio-, che resta e dà un senso anche quando gli ideali politici vengono abbattuti e fatti a pezzi.
Del resto, anche solo lasciarsi cullare dal maestrale e struggente gioco di luci e ombre diretto da William Lubtchansky, nel quale le scene vanno a inserirsi come visioni oniriche può essere un buon motivo per voler guardare il film, il tutto accompagnato dalla musica ipnotica di Nico.
Una piccola perla, insomma, che si consuma tra un citazionismo prepotente e gli occhioni scuri e ammalianti del nostro caro Louis (altri due buon motivi che da soli basterebbero per guardare il film, nel caso in cui di tutte quelle cavolate altisonanti non vi importasse nulla!)

Per concludere, cosa risponde Garrel a una giornalista che gli chiede come mai loro, attori francesi, sembrano quasi tutti esprimere una grande angoscia esistenziale?!
«Ha ragione, somigliamo a un gruppo di vecchi tristi, anche se non abbiamo ancora compiuto trent'anni. Ci vorrebbero 155 buoni psicoanalisti per poter guarire l'angoscia della giovane generazione di attori francesi. Il nostro è un cinema che si nutre di quella malinconia, tipica di un certo teatro. Ci divertiamo a farci del male».

NON, JE NE REGRETTE RIEN
NON, JE NE REGRETTE RIEN
"NEW YORK HERALD TRIBUNE!"

martedì 3 agosto 2010

Un famoso Guglielmo disse che siamo fatti della stessa materia dei sogni


Con poca luce, che la luce confonde,
il blues.
Tipo Gary Moore e le sue schitarrate in Parisienne Walkways.
Le note si incagliano, si nascondono,

rimbombano

negli eleganti giochi di luce e ombra che le gambe irrequiete disegnano tra le pieghe di un letto disfatto.
Il blues, Winston blue. Improvvise opere d'arte che si consumano nell'aria, impalpabili creazioni d'autore che non hanno l'agio di esistere per se stesse e già sono diventate altro. Senza una logica, dissolte.
Il caldo là fuori spinge i sensi a un delirio d'onnipotenza, quasi. Quasi una poesia alcyonia che urla e sussurra insieme la sua melodia privata di versi. La sua melodia, la sua pienezza.
Di quella voce che diceva

"Come si dice in italiano che vorrei baciarti?"