giovedì 9 dicembre 2010

Guardare al teatro



Come del resto non essere d’accordo con una visione della vita di impronta squisitamente teatrale quale predominava nell’età elisabettiana?!

La regine stessa arrivò a giustificare la propria regalità in termini teatrali, dichiarando che “noi principi stiamo su un palcoscenico, esposti alla vista e all’osservazione di tutto il mondo”.

La vita, una recita. Il palcoscenico, il mondo sociale in cui siamo gettati. Un tipo di analogia financo troppo elementare, ma spesso sfuggente nella realtà quotidiana.

Quanti esempi ci fornisce Shakespeare di questa concezione così intrinsecamente elisabettiana dell’esistenza: dalla famosa asserzione “Quando veniamo al mondo piangiamo perché siamo scaraventati su questo palcoscenico di matti”, alle parole, quasi bisbigliate con timore e reverenza dal mercante Antonio “Io tengo il mondo per quello che è, Graziano, un palcoscenico, dove ogni uomo deve recitare una parte, e la mia è triste”.

Uno degli aspetti sicuramente più affascinanti dello studiare quest’epoca è proprio questo: entrare in una dimensione dove il senso della vita fa rima con teatro. Londra è viva grazie soprattutto alle grandi opere drammaturgiche, ai teatri che vanno aprendosi sempre più numerosi, fino a raggiungere la decina prima della chiusura degli stessi.

Il teatro però coesisteva all’interno di una condizione storica che non aveva in realtà nulla di roseo. L’Inghilterra -Londra in primis- del sedicesimo secolo era una nazione dove il Rinascimento si sviluppa tra rivolgimenti religiosi e tentativi di portare a termine la formazione dello stato nazionale unitario. Guerra e violenza, insomma, la facevano da padrone, unite a fame, crisi delle campagne, aumento drastico della popolazione in pochi decenni, inflazione e crisi delle finanze statali: è in un simile contesto che Shakespeare va elaborando i grandi, e non solo, personaggi dei suoi drammi storici fino agli ultimi romances. E sono loro a incarnare quel pessimismo che era stato di Lutero, Calvino e infine dei loro eredi puritani: questi personaggi sanno che la politica esclude ogni considerazione morale in un mondo che è “guerra di tutti contro tutti”. Potrebbe esistere messaggio più attuale di questo?

In una società del genere, che ben poco ha da spartire con l’immagine di merry England a cui spesso con torto facciamo riferimento nella nostra mente, segnata dall’odio e dal fanatismo come poche altre nella storia moderna, affiorava quasi da sé una certa affinità, se non omogeneità, dell’arte con la vita quotidiana, il senso epocale del mondo come un grande teatro e del teatro come simbolo del mondo. Ecco come il teatro elisabettiano, che cresce e si sviluppa accentuando sempre di più la sua natura di industria redditizia, altro non è se non il frutto, o meglio la trasposizione in chiave spettacolare, delle dinamiche che muovono la storia di quegli anni.

Elisabetta I, politiche di controllo e censura a parte, fu tra le prime a difendere il nascente teatro dagli attacchi puritani e ad incoraggiarne la professionalizzazione.

E così esso prosperò –fino al 1642- passando da fenomeno relegato a marginalità sociale a qualcosa che ebbe una notevole influenza e importanza nella vita soprattutto dei londoners.

Il teatro fu essenzialmente anche un’industria, economicamente parlando, un’industria che produsse plays a migliaia, in massima parte scadenti, atte al puro e semplice intrattenimento.

Ma tra queste, una decina di scrittori si rivelarono dei geni e dei talenti in grado di tramutare un prodotto di consumo in una vera opera d’arte alta e complessa, riuscirono a porre l’età elisabettiana all’altezza dell’unico altro grande periodo di teatro nella storia europea: il V secolo greco.

Shakespeare, definito addirittura “un corvo venuto dal nulla che si fa bello con le nostre penne”, e con lui Marlowe, Jonson, Middleton, Webster, riuscirono ad imprimere alle loro materie di Britannia o di Francia, di Grecia o di Roma, d’Italia o d’Oriente, il proprio estro e intuito tragico o comico, portando la propria soggettività a coincidere con l’oggettività della mimesi drammatica.

I topoi diffusi nella letteratura del periodo, i luoghi comuni dell’epoca (l’uomo come cerniera dei due mondi, il contrasto tra apparenza e realtà, la gerarchia dell’essere e così via), quegli stessi in cui spesso è stato visto il messaggio di Shakespeare, s’incorporavano nei caratteri e diventavano parte funzionale del tutto che li trascendeva, sfaccettature lampeggianti un istante in una rappresentazione inesauribile del gran caleidoscopio dell’essere. Così i materiali e le fonti erano trasfigurati, con consapevolezza e anche per invasamento teatrale, nell’ostensione assoluta del dramma, forma principe dell’ambiguità e della coincidenza degli opposti.

E, si badi, senza che per fare questo gli autori di teatro avessero una loro particolare teoria, un metodo razionalizzato, una coscienza filosofica di quello che facevano: operavano più per principi non formulati, istintivi e inconsci, rivaleggiando coi modelli classici che scatenavano in loro un demone mimetico. A livello di consapevolezza, Shakespeare e gli altri, da empirici in tutto e per tutto, si accontentavano dell’idea corrente della mimesi fatta a fini morali, utile convenzione di mestiere che rispondeva all’attesa dei fruitori ed era bene accetta alle autorità: una falsa etichetta del prodotto culturale che è di tutti i tempi e che nulla aveva a che fare con lo spirito delle loro opere, e forse neanche con le convinzioni degli autori stessi, i quali probabilmente nello scrivere i loro copioni, pensavano di rappresentare la vita com’era e come la sentivano e basta, di dire la verità – e in questo trovavano la dignità e la sacralità del loro disprezzato mestiere.

Marlowe fu il primo scrittore a sorpassare gli schemi medievali, per aprirsi al dubbio, all’ambiguità: passare dalla tesi al problema, dal dimostrare al mostrare. Shakespeare poi porta rapidamente a maturazione la scrittura drammatica e, come fa lo spettro con Amleto, “viene a sconvolgere l’essere in noi, gonzi della natura, con pensieri oltre i limiti dell’umano”. Al punto che Kierkegaard, in Timore e tremore, ringrazia Shakespeare per essere stato “capace di esprimere tutto, assolutamente tutto, esattamente com’è”. E in verità, per quanto riguarda la scrittura teatrale, dopo di lui non c’è veramente nulla di nuovo.

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