venerdì 6 agosto 2010

Basterebbe in fondo un Pekisch che ci diriga per farci incontrare

Per terra, la terra è secca, e bruna, e dura. Se l’è bevuta il sole, per ore, cancellando una notte di acqua, e lampi, e boati. Finissero nel nulla, così, anche le paure. Sulla terra, poca polvere quasi immobile. Non c’è vento che se la porti via. La gente, con strana meticolosità, ha cancellato i segni degli zoccoli dei cavalli e i solchi delle ruote delle carrozze.
Tutta la strada come un tavolo da biliardo di terra bruna.
La strada è larga trenta passi. Divide in due il paese. Di qua dalla strada. Di là dalla strada. La strada è lunga mille passi, incominciando a contare dalla prima casa del paese e fermandosi all’angolo dell’ultima. Mille passi normali. Di un uomo normale, se c’è.
All’estremo sinistro della strada – sinistro guardando a mezzanotte – ci sono dodici uomini. Due file di sei uomini. Tengono in mano strani strumenti. Alcuni piccoli, alcuni grandi. Sono tutti immobili. Gli uomini, ovviamente, non gli strumenti. E guardano di fronte a sé. E dunque, forse, dentro di sé.
All’estremo destro della strada – destro guardando a mezzanotte – ci sono altri dodici uomini. Due file di sei uomini. Tengono in mano strani strumenti. Alcuni piccoli, alcuni grandi. Sono tutti immobili. Gli uomini, ovviamente, non gli strumenti. E guardano di fronte a sé. E dunque, forse, dentro di sé.
Nei mille passi di strada che dividono i dodici uomini di sinistra dai dodici uomini di destra non c’è niente e nessuno. Perché la gente – e qui gente non vuol dire semplicemente qualche passante, ma decine e decine di persone che messe insieme fanno centinaia di persone, diciamo quattrocento persone, forse anche di più, cioè tutto il paese e anche quelli venuti da lontano appositamente per essere lì, adesso……
Nei mille passi di strada che dividono i dodici uomini di sinistra dai dodici uomini di destra non c’è assolutamente niente e nessuno. Perché la gente se ne sta tutta assiepata e schiacciata tra i bordi della strada e le facciate delle case, ciascuno badando, nonostante la calca e la tensione, a non finire con un piede su quello che a tutti gli effetti ora si può definire, dopo tanto meticoloso lavoro, uno splendido tavolo da biliardo di terra bruna. E man mano che ci si avvicina all’ipotetico e in fondo reale punto di esatta metà della strada, là dove i dodici uomini di sinistra si incroceranno al momento giusto – al momento culminante – con i dodici uomini di destra, come le dita di due mani che si cercano e poi si trovano, come ruote di un grande ingranaggio sonoro, come fili di un tappeto orientale, come venti di una burrasca, come i due proiettili di un solo duello…..
E man mano che ci si avvicina alla metà esatta della strada, sempre più fitta si fa la calca, con la gente assiepata e stretta intorno a quel punto nevralgico, il più vicino possibile a quel confine invisibile dove si mescoleranno le due nuvole sonore ( come sarà, immaginarlo è impossibile), con gran affastellamento di occhi, cappellini, vestiti della festa, bambini, sordità di vecchi, scollature, piedi, rimpianti, lucidi stivali, odori, profumi, sospiri, guanti di pizzo, segreti, malattie, parole mai dette, occhialetti, immensi dolori, chignon, puttane, baffi, mogli vergini, menti spente, tasche, idee sporche, orologi d’oro, sorrisi di felicità, medaglie, pantaloni, sottovesti, illusioni – tutto un grande magazzino di umanità, un concentrato di storie, un ingorgo di vite versato in quella strada ( e con particolare violenza nel punto esatto all’esatta metà di quella strada) per fare da sponda alla traiettoria di una singolare avventura sonora – di una pazzia – di uno scherzo dell’immaginazione – di un rito – di un addio.
E tutto questo – tutto – a mollo nel silenzio.
Se si è capaci di immaginarlo, bisogna immaginarlo così.
Un silenzio infinito.
Non per altro: ma è sempre un qualche meraviglioso silenzio che porge alla vita il minuscolo o enorme boato di ciò che poi diventerà inamovibile ricordo. Così.






Lì sta l’orribile e il meraviglioso.
Non sarebbe poi niente se solo non si avesse di fronte l’infinito.
da "Castelli di rabbia"
Alessandro Baricco

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