TROPICO DEL CAPRICORNO
Che mi tocchi morire oggi o domani, a me non importa e non mi ha mai importato; ma che nemmeno oggi, dopo anni di fatica, riesca a dire quel che penso a stento, questo mi secca, mi rode. Fin da bambino mi rivedo sulle piste di questo spettro, a non gustare nulla, a non desiderare nulla se non questa forza, questa capacità. Tutto il resto è una bugia - tutto quello che ho fatto e detto che non mirasse a questo. Ed è la maggior parte della mia vita.
Io ero una contraddizione in termini, come suol dirsi. La gente mi stimava serio e nobile d'animo, oppure gaio e scatenato, o sincero e premuroso, o negligente e spensierato. Io ero tutte queste cose a un tempo, e inoltre ero qualcos'altro, qualcosa che nessuno sospettava, meno che mai io medesimo.
Lui era morto e non c'era alternativa. Io lo sapevo e n'ero contento. Non ci sprecai lacrime. Non potevo dire: meglio così per lui, perché dopo tutto "lui" non c'era più. Andato lui, e con lui le sofferenze che aveva patito e la sofferenza che senza volere aveva inflitto agli altri. Amen! dissi fra me, e con questo, siccome ero un po' innervosito, mollai una gran scoreggia, proprio accanto alla bara.
Questo prendersela troppo ricordo che cominciò solo pressapoco quando mi innamorai per la prima volta. Ma neanche allora me la presi abbastanza. Se me la fossi presa, ora non sarei qui a scriverne: sarei morto di crepacuore, o mi avrebbero impiccato. Fu una brutta esperienza, perché mi insegnò a vivere nella menzogna. Mi insegnò a sorridere quando non avevo voglia di sorridere, a lavorare pur senza credere nel lavoro, a vivere senza aver ragione di continuare a vivere. Anche quando l'ebbi dimenticata, continuò per me il trucchetto di far le cose in cui non credevo.
Vivendo in mezzo a un mondo dov'era una pletora di cose nuove, io mi tenevo al vecchio. In ogni oggetto c'era una minuta particella che in particolar modo richiamava la mia attenzione. Io avevo un occhio microscopico per il difetto, per quel grano di bruttezza che per me costituiva l'unica bellezza dell'oggetto. Ogni particolarità che rendeva inservibile l'oggetto, o lo datava, mi attraeva, me lo rendeva caro. Se questo era perverso era anche salubre, considerando che io non ero destinato ad appartenere a questo mondo che mi sorgeva attorno. Presto anch'io sarei diventato come questi oggetti che veneravo, una cosa a sé, un membro disutile della società. Ero datato, definitivamente, questo era certo. Eppure riuscivo a divertire, a istruire, a nutrire. Ma mai a farmi accettare in modo genuino. Quando volevo, quando me ne veniva il prurito, riuscivo a scegliere un uomo qualunque, in qualunque strato sociale e a farmi ascoltare. Riuscivo a tenerlo incantato, volendo, ma come un mago o uno stregone, solo finché in me fosse lo spirito. In fondo sentivo negli altri una sfiducia, un disagio, un antagonismo che, essendo istintivo, era irrimediabile. Avrei dovuto fare il pagliaccio; mi avrebbe permesso la più ampia gamma espressiva [...] La gente mi avrebbe apprezzato perché non avrebbe capito; ma avrebbe anche capito che non mi si poteva capire. E questo a dir poco sarebbe stato un sollievo.
Per un uomo del mio temperamento, essendo il mondo quel che è, non c'è assolutamente speranza né soluzione. Anche se potessi scrivere il libro che voglio scrivere, nessuno lo vorrebbe - conosco troppo bene i miei compatrioti. Anche se potessi ricominciare da capo non servirebbe perché fondamentalmente non ho voglia di lavorare, non ho voglia di diventare un membro utile della società. Sto seduto a fissare la casa dall'altra parte della strada. Sembra non solo brutta e insensata come tutte le altre case della strada, ma a fissarla intensamente all'improvviso è diventata assurda. L'idea di costruire un luogo di rifugio in quel modo particolare mi sembra assolutamente folle. La città medesima mi sembra un esempio di somma follia, tutto quel che c'è dentro, fogne, ferrovie sopraelevate, macchine a gettone, giornali, telefoni, guardie, maniglie delle porte, dormitori per barboni, schermi, carta igienica, tutto. Tutto potrebbe anche non essere, e non solo nulla andrebbe perduto, ma anzi si guadagnerebbe un universo intero. Guardo la gente che mi passa accanto per vedere se per caso qualcuno è d'accordo con me. Supponiamo che ne fermassi uno per fargli una semplice domanda. Supponiamo che gli dicessi all'improvviso: "Perché continui a vivere in questo modo?". Probabilmente chiamerebbe una guardia. Mi chiedo se nessuno si parla mai come faccio io. Mi chiedo se per caso in me c'è qualcosa di storto. L'unica conclusione a cui arrivo è che io sono diverso. Ed è una questione assai grave, comunque la si guardi. Henry, dico a me stesso levandomi lentamente dallo scalino, stirandomi, strusciandomi i calzoni e sputando la gomma, Henry, dico a me stesso, sei ancora giovane, sei appena un galletto e se ti lasci prendere per le palle, sei un idiota perché sei migliore di tutti loro, solo che devi liberarti dalle tue false idee sull'umanità. Devi capire, ragazzo mio, che hai a che fare con dei tagliagola, coi cannibali, anche se son vestiti, sbarbati, profumati, ma questo sono, tagliagola, cannibali. La miglior cosa per te Henry è andartene a prendere un gelato di cioccolata, e quando siedi al bar tieni gli occhi spalancati e dimenticati il destino dell'uomo perché potresti anche trovare da chiavare e una bella chiavata ti sgrava le palle e ti lascia un sapore buono in bocca mentre questo ti dà solo dispepsia, forfora, alitosi, encefalite. [...]
Non c'è soluzione per un uomo come me, essendo io quel che sono e il mondo quel che è. Il mondo è diviso in tre parti, di cui due parti sono polpette e spaghetti e l'altra un'enorme cresta di gallo sifilitica.
da Tropico del Capricorno