Guido Gozzano. Un poeta che mi sta particolarmente a cuore. Un poeta che nel suo continuo ritornare a immagini di epoche passate, ci mostra il suo radicato desiderio di fuga dal presente; un poeta che non ha -e in questo è molto simile ai crepuscolari suoi contemporanei- nessun particolare ideale o nessuna specifica Verità da insegnare al mondo. E' finita l'epoca dei grandi poeti Vate, di D'annunzio o di Pascoli. I versificatori del primo Novecento decidono di imboccare una via più 'anarchica' -concedetemi il termine- rispetto ai loro "vetusti" maestri: non vogliono più stare al servizio di nessuna Musa ispiratrice, vogliono piuttosto sviluppare, tramite la consapevolezza di sè stessi e della realtà poco rosea che li circonda, delle poetiche autonome dove, per Gozzano così come per molti altri, l'iniziale ammirazione verso le calligrafie estetizzanti del Piacere o gli incantamenti melodici del Poema paradisiaco del primo D'Annunzio, si tramutano ben presto in avversione ed ironia.
Un concetto chiave in Gozzano, quello dell'ironia e, se mi permettete, forse la sua cifra stilistica più interessante, accanto ovviamente al permanere di quel gusto invece tipicamente pascoliano per le atmosfere che ci riportano all'infanzia, ad unversi intimi e domestici, a mondi lontani, che, se chiudiamo gli occhi e ci lasciamo trasportare dalla musicalità dei versi, riusciamo quasi a sentire fisicamente quel sapore di antico, toccare quella polvere che ristagna su mobili accatastati in soffitte dimenticate. Qui si racchiude e si consuma il fascino del poeta torinese.
Le sue sofferenze e i suoi turbamenti -tanto di intellettuale quanto di uomo- non sono tanto diversi, a circa un secolo di distanza, da quelli dell'individuo contemporaneo. Permettetemi, parlo di un individuo contemporaneo che in qualche modo si senta ancora parte di una tradizione storico-culturale importante e dignitosa, che almeno ne abbia coscienza, coloro che si lasciano trascinare senza capo nè coda dall'innumerevole quantità di immondizia che questa decantata modernità ha saputo offrirci, permettetemi di nuovo, non sono assolutamente in grado di provare nessun tipo di sofferenza o turbamento. Che si debbano invidiare o biasimare, non mi sento in grado di dirlo. Ma tornando a Gozzano, perchè dicevo questo? Perchè nei suoi Colloqui del 1911 possiamo percepire una determinata condizione psicologica del poeta: quella dell'uomo incapace di adattarsi in una vita ormai totalmente in preda alle leggi mercantili, alle leggi produttive, alle leggi finanziarie, dove Arte e Poesia pretendono di rappresentare i sogni dell'anima, ma in realtà hanno perso qualsiasi valore, sono diventati solo il canale di scarico delle ambizioni e delle limitate soddisfazioni della classe borghese. Il denaro conta e Arte e Poesia sono antichi sesterzi da riporre in un salvadanaio destinato a essere dimenticato. E l'intellettuale entra in crisi, certo, cos'è questa "crisi dell'intellettuale" se non il crescere prepotente di un senso di colpa verso la propria vita sentita come sterile, verso il proprio compito del tutto inutile in un mondo del genere?! Ecco che si ritorna al punto di partenza, quando dicevamo che Gozzano non sente di avere nessun particolare ideale o verità da insegnare al mondo, ora ci è chiaro il perchè. Così come ci è chiaro perchè Sanguineti l'abbia definito il poeta dell'obsolescenza: stando così le cose, Gozzano decide di non fabbricare nulla di moderno che sia destinato poi all'invecchiamento, compie l'operazione contraria e fabbrica direttamente l'obsoleto. Scrive di cose e persone invase dal tempo, meglio, vestite di tempo e in esse si rifugia (non dimentichiamoci che la sua raccolta antecedenti a Colloqui, si chiamava proprio La via del rifugio).
Di lui è stato scritto, e lo trovo estremamente interessante: ha bisogno di ritrovare le sue radici nel passato per esistere esiliato nel presente. Gli piace fingersi, col buon gusto e la cautela dell'ironia e la piena consapevolezza di un divertimento in maschera, un uomo "d'altri tempi".
Ecco, ho scritto tutto questo perchè mi sono svegliata da circa un'oretta soltanto, mattiniera delle 11.15, e avevo voglia di iniziare la giornata con una poesia di Gozzano, avevo voglia di dedicarla a tutti coloro che eventualmente leggeranno e forse l'apprezzano quanto l'apprezzo io.
Un concetto chiave in Gozzano, quello dell'ironia e, se mi permettete, forse la sua cifra stilistica più interessante, accanto ovviamente al permanere di quel gusto invece tipicamente pascoliano per le atmosfere che ci riportano all'infanzia, ad unversi intimi e domestici, a mondi lontani, che, se chiudiamo gli occhi e ci lasciamo trasportare dalla musicalità dei versi, riusciamo quasi a sentire fisicamente quel sapore di antico, toccare quella polvere che ristagna su mobili accatastati in soffitte dimenticate. Qui si racchiude e si consuma il fascino del poeta torinese.
Le sue sofferenze e i suoi turbamenti -tanto di intellettuale quanto di uomo- non sono tanto diversi, a circa un secolo di distanza, da quelli dell'individuo contemporaneo. Permettetemi, parlo di un individuo contemporaneo che in qualche modo si senta ancora parte di una tradizione storico-culturale importante e dignitosa, che almeno ne abbia coscienza, coloro che si lasciano trascinare senza capo nè coda dall'innumerevole quantità di immondizia che questa decantata modernità ha saputo offrirci, permettetemi di nuovo, non sono assolutamente in grado di provare nessun tipo di sofferenza o turbamento. Che si debbano invidiare o biasimare, non mi sento in grado di dirlo. Ma tornando a Gozzano, perchè dicevo questo? Perchè nei suoi Colloqui del 1911 possiamo percepire una determinata condizione psicologica del poeta: quella dell'uomo incapace di adattarsi in una vita ormai totalmente in preda alle leggi mercantili, alle leggi produttive, alle leggi finanziarie, dove Arte e Poesia pretendono di rappresentare i sogni dell'anima, ma in realtà hanno perso qualsiasi valore, sono diventati solo il canale di scarico delle ambizioni e delle limitate soddisfazioni della classe borghese. Il denaro conta e Arte e Poesia sono antichi sesterzi da riporre in un salvadanaio destinato a essere dimenticato. E l'intellettuale entra in crisi, certo, cos'è questa "crisi dell'intellettuale" se non il crescere prepotente di un senso di colpa verso la propria vita sentita come sterile, verso il proprio compito del tutto inutile in un mondo del genere?! Ecco che si ritorna al punto di partenza, quando dicevamo che Gozzano non sente di avere nessun particolare ideale o verità da insegnare al mondo, ora ci è chiaro il perchè. Così come ci è chiaro perchè Sanguineti l'abbia definito il poeta dell'obsolescenza: stando così le cose, Gozzano decide di non fabbricare nulla di moderno che sia destinato poi all'invecchiamento, compie l'operazione contraria e fabbrica direttamente l'obsoleto. Scrive di cose e persone invase dal tempo, meglio, vestite di tempo e in esse si rifugia (non dimentichiamoci che la sua raccolta antecedenti a Colloqui, si chiamava proprio La via del rifugio).
Di lui è stato scritto, e lo trovo estremamente interessante: ha bisogno di ritrovare le sue radici nel passato per esistere esiliato nel presente. Gli piace fingersi, col buon gusto e la cautela dell'ironia e la piena consapevolezza di un divertimento in maschera, un uomo "d'altri tempi".
Ecco, ho scritto tutto questo perchè mi sono svegliata da circa un'oretta soltanto, mattiniera delle 11.15, e avevo voglia di iniziare la giornata con una poesia di Gozzano, avevo voglia di dedicarla a tutti coloro che eventualmente leggeranno e forse l'apprezzano quanto l'apprezzo io.
Monique
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