,allora verrò a lanciarti sassi alla finestra. Così starò buona e in silenzio e omaggerò il libro di una mia nuova "amica" virtuale, che apprezzo molto pur non conoscendo affatto. Sarà che condivide l'opinione che ho di Stavrogin.
giovedì 30 dicembre 2010
(siccome) ABBAIARE STANCA
,allora verrò a lanciarti sassi alla finestra. Così starò buona e in silenzio e omaggerò il libro di una mia nuova "amica" virtuale, che apprezzo molto pur non conoscendo affatto. Sarà che condivide l'opinione che ho di Stavrogin.
If you are so very good looking
Succo al pompelmo
Bonne chance mon amì.
domenica 26 dicembre 2010
SU QUEL DOLCE PROFILO DI PERSONA PER BENE CHE SEI
Mi avevi detto:
giovedì 23 dicembre 2010
Last night I dreamt that somebody loved me
Penso che Morrissey sia lagnoso, noioso, maniaco con smanie suicida tipo la Wolf (Virginia). Vuole morire lui, andando addosso a un camion da dieci tonnellate. Nessuno gli dà mai quello che vuole e si lamenta, si lamenta, si lamenta, fino allo sfinimento, fino a che sa che è finita e ormai non fa nessuna differenza. Sì, questa notte gli ha aperto gli occhi e si è chiesto "Quanto presto è adesso?".
mercoledì 22 dicembre 2010
Germi
Ora che ci penso, ieri notte ho avuto un'intensa attività onirica. Cose assurde, questo ne sono sicura, però mi ricordo solo tre particolari: andavo in macchina a Formentera con mia zia ma in realtà non era Formentera, si capisce; lo staff di Virgin Radio faceva una riunione nel mio cesso, proprio lì, e entravano poi nella mia stanza mentre ancora dormivo con un pigiama rosso; mi battevo talmente strenuamente contro l'uccisione di un animale che alla fine mi sono decisa -sempre nel sogno- a diventare vegetariana perchè ormai era impensabile mangiare della carne. Non lo so.
sabato 18 dicembre 2010
TU NON GUARDARMI CON QUELLA TENEREZZA
Per riassumere, direi:
venerdì 17 dicembre 2010
giovedì 16 dicembre 2010
Siamo tutti usciti dall'enorme cappotto di Gogol
'Rus! 'Rus! Ti vedo, dalla mia meravigliosa, bellissima lontananza vedo te: sei povera, dispersa e inospitale; non hai arditi prodigi di natura coronati da arditi prodigi d'arte, che rallegrino o intimoriscano gli sguardi: città con molti palazzi dalle alte finestre, cresciuti nelle rocce, alberi pittoreschi ed edere cresciute nelle case, fra lo scroscio e il pulviscolo eterno delle cascate; il capo non si piega all'indietro per vedere massi di pietra che sopra di esso si innalzano senza fine sopra il cielo; non scintillano verso bui archi sovrapposti, avvolti da tralci di vite, d'edera e da miriadi di rose selvatiche, non scintillano attraverso di essi in lontananza le linee eterne di monti radiosi, che fuggono in limpidi cieli d'argento. Tutto in te è aperto, deserto e uniforme; come punti, come piccoli segni, modestamente spuntano in mezzo alle pianure le tue non alte città; nulla lusinga e incanta lo sguardo. E dunque quale forza incomprensibile, misteriosa, attira a te? Perchè echeggia e risuona senza tregua all'orecchio il tuo canto malinconico, che vola per tutta la sua lunghezza e ampiezza, da mare a mare? Che c'è in questa canzone? Che cosa chiama, e singhiozza, e stringe il cuore? Quali suoni baciano dolorosamente, e vogliono penetrare nell'anima, e si avviluppano intorno al mio cuore? Rus'! Che vuoi dunque da me? Quale legame incomprensibile si cela fra noi? Perchè mi guardi così, e perchè tutto ciò che è in te mi rivolge occhi pieni di attesa?... E ancora, pieno di perplessità, io resto immobile, e già sul mio capo incombe una nube minacciosa, gravida di piogge future, e il pensiero ammutolisce davanti alla tua vastità. Che cosa profetizza questa vastità sconfinata? Non deve nascere qui, in te, un'idea infinita, quando tu stessa sei senza fine? Non deve forse apparire qui un eroe favoloso, quando c'è spazio in cui possa agire liberamente e muoversi? E minacciosamente mi afferra la vastità possente, riflettendosi con forza tremenda nel mio profondo; i miei occhi sono illuminati da un potere sovrannaturale: oh! quale distesa fulgente, splendida, ignota alla terra! Rus'!
mercoledì 15 dicembre 2010
Nella forma dell' aubade
" In verità mi chiedo cosa facessimo
sabato 11 dicembre 2010
Better to reign in Hell, than serve in Heav'n
giovedì 9 dicembre 2010
Sport us while we may
Ti manca questo e quello.
Guardare al teatro
Come del resto non essere d’accordo con una visione della vita di impronta squisitamente teatrale quale predominava nell’età elisabettiana?!
La regine stessa arrivò a giustificare la propria regalità in termini teatrali, dichiarando che “noi principi stiamo su un palcoscenico, esposti alla vista e all’osservazione di tutto il mondo”.
La vita, una recita. Il palcoscenico, il mondo sociale in cui siamo gettati. Un tipo di analogia financo troppo elementare, ma spesso sfuggente nella realtà quotidiana.
Quanti esempi ci fornisce Shakespeare di questa concezione così intrinsecamente elisabettiana dell’esistenza: dalla famosa asserzione “Quando veniamo al mondo piangiamo perché siamo scaraventati su questo palcoscenico di matti”, alle parole, quasi bisbigliate con timore e reverenza dal mercante Antonio “Io tengo il mondo per quello che è, Graziano, un palcoscenico, dove ogni uomo deve recitare una parte, e la mia è triste”.
Uno degli aspetti sicuramente più affascinanti dello studiare quest’epoca è proprio questo: entrare in una dimensione dove il senso della vita fa rima con teatro. Londra è viva grazie soprattutto alle grandi opere drammaturgiche, ai teatri che vanno aprendosi sempre più numerosi, fino a raggiungere la decina prima della chiusura degli stessi.
Il teatro però coesisteva all’interno di una condizione storica che non aveva in realtà nulla di roseo. L’Inghilterra -Londra in primis- del sedicesimo secolo era una nazione dove il Rinascimento si sviluppa tra rivolgimenti religiosi e tentativi di portare a termine la formazione dello stato nazionale unitario. Guerra e violenza, insomma, la facevano da padrone, unite a fame, crisi delle campagne, aumento drastico della popolazione in pochi decenni, inflazione e crisi delle finanze statali: è in un simile contesto che Shakespeare va elaborando i grandi, e non solo, personaggi dei suoi drammi storici fino agli ultimi romances. E sono loro a incarnare quel pessimismo che era stato di Lutero, Calvino e infine dei loro eredi puritani: questi personaggi sanno che la politica esclude ogni considerazione morale in un mondo che è “guerra di tutti contro tutti”. Potrebbe esistere messaggio più attuale di questo?
In una società del genere, che ben poco ha da spartire con l’immagine di merry England a cui spesso con torto facciamo riferimento nella nostra mente, segnata dall’odio e dal fanatismo come poche altre nella storia moderna, affiorava quasi da sé una certa affinità, se non omogeneità, dell’arte con la vita quotidiana, il senso epocale del mondo come un grande teatro e del teatro come simbolo del mondo. Ecco come il teatro elisabettiano, che cresce e si sviluppa accentuando sempre di più la sua natura di industria redditizia, altro non è se non il frutto, o meglio la trasposizione in chiave spettacolare, delle dinamiche che muovono la storia di quegli anni.
Elisabetta I, politiche di controllo e censura a parte, fu tra le prime a difendere il nascente teatro dagli attacchi puritani e ad incoraggiarne la professionalizzazione.
E così esso prosperò –fino al 1642- passando da fenomeno relegato a marginalità sociale a qualcosa che ebbe una notevole influenza e importanza nella vita soprattutto dei londoners.
Il teatro fu essenzialmente anche un’industria, economicamente parlando, un’industria che produsse plays a migliaia, in massima parte scadenti, atte al puro e semplice intrattenimento.
Ma tra queste, una decina di scrittori si rivelarono dei geni e dei talenti in grado di tramutare un prodotto di consumo in una vera opera d’arte alta e complessa, riuscirono a porre l’età elisabettiana all’altezza dell’unico altro grande periodo di teatro nella storia europea: il V secolo greco.
Shakespeare, definito addirittura “un corvo venuto dal nulla che si fa bello con le nostre penne”, e con lui Marlowe, Jonson, Middleton, Webster, riuscirono ad imprimere alle loro materie di Britannia o di Francia, di Grecia o di Roma, d’Italia o d’Oriente, il proprio estro e intuito tragico o comico, portando la propria soggettività a coincidere con l’oggettività della mimesi drammatica.
I topoi diffusi nella letteratura del periodo, i luoghi comuni dell’epoca (l’uomo come cerniera dei due mondi, il contrasto tra apparenza e realtà, la gerarchia dell’essere e così via), quegli stessi in cui spesso è stato visto il messaggio di Shakespeare, s’incorporavano nei caratteri e diventavano parte funzionale del tutto che li trascendeva, sfaccettature lampeggianti un istante in una rappresentazione inesauribile del gran caleidoscopio dell’essere. Così i materiali e le fonti erano trasfigurati, con consapevolezza e anche per invasamento teatrale, nell’ostensione assoluta del dramma, forma principe dell’ambiguità e della coincidenza degli opposti.
E, si badi, senza che per fare questo gli autori di teatro avessero una loro particolare teoria, un metodo razionalizzato, una coscienza filosofica di quello che facevano: operavano più per principi non formulati, istintivi e inconsci, rivaleggiando coi modelli classici che scatenavano in loro un demone mimetico. A livello di consapevolezza, Shakespeare e gli altri, da empirici in tutto e per tutto, si accontentavano dell’idea corrente della mimesi fatta a fini morali, utile convenzione di mestiere che rispondeva all’attesa dei fruitori ed era bene accetta alle autorità: una falsa etichetta del prodotto culturale che è di tutti i tempi e che nulla aveva a che fare con lo spirito delle loro opere, e forse neanche con le convinzioni degli autori stessi, i quali probabilmente nello scrivere i loro copioni, pensavano di rappresentare la vita com’era e come la sentivano e basta, di dire la verità – e in questo trovavano la dignità e la sacralità del loro disprezzato mestiere.
Marlowe fu il primo scrittore a sorpassare gli schemi medievali, per aprirsi al dubbio, all’ambiguità: passare dalla tesi al problema, dal dimostrare al mostrare. Shakespeare poi porta rapidamente a maturazione la scrittura drammatica e, come fa lo spettro con Amleto, “viene a sconvolgere l’essere in noi, gonzi della natura, con pensieri oltre i limiti dell’umano”. Al punto che Kierkegaard, in Timore e tremore, ringrazia Shakespeare per essere stato “capace di esprimere tutto, assolutamente tutto, esattamente com’è”. E in verità, per quanto riguarda la scrittura teatrale, dopo di lui non c’è veramente nulla di nuovo.
mercoledì 8 dicembre 2010
Who will in fairest book of Nature show
E dire che non le importava neanche poi più di tanto di quello che pensava ora.
A little more stupid, a little more scared, every minute more...
domenica 5 dicembre 2010
Smashing Pumpkins: I Need You Around
Credere che in fondo si starebbe meglio in un'opera di Checov
Non fidatevi mai di chi vi dice "Sei mia!" mia, mia, mia, solo mia. Il possesso sta all'amore vero come la Russia sta al caldo tropicale. Uno che mi dice "sei mia" ha solo paura di stare male senza di me. Ma non che io possa stare male senza di lui... e sarà lo stesso carino -immagino- ma non è amore.